giovedì 12 gennaio 2012

Il sole di gennaio

Il sole bruciava. Strano, perché era inverno pieno e il freddo tagliava la pelle con le sue sferzate, letteralmente. Eravamo fermi in una stazione dei treni, aspettando un'improbabile coincidenza. I treni sembrano appuntamenti con il destino. Poca la gente in giro. Il pomeriggio appena iniziato accoglieva meno anime di quante ce ne si aspettasse. Era da mezzogiorno che si stava lì. Incuranti di ogni cosa e con quella fastidiosissima sensazione di sudore che ti si asciuga in corpo e nei vestiti ghiacciandoti ancora di più. Che palle. Ma non si poteva andare in macchina? Partire magari di notte. No, ci si deve adattare spesso e volentieri, anzi mal volentieri.
Si mangiava male e poco. Io poi mangiavo quasi nulla ma i morsi della fame li sentivo eccome. Andavamo avanti a cracker e succo di pomodoro, quando lo trovavamo, altrimenti la passata nelle bottiglie andava pure bene. Qualcuno della compagnia aveva detto che faceva bene. E poi ci sembrava quasi di mangiare pasta al sugo. Odiavo stare lì. Odiavo stare sotto quel sole. Odiavo, e dico odiavo con tutta la forza che ho in corpo, quel lasso di tempo che andava da mezzogiorno fino alle quattro del pomeriggio e soprattutto odiavo il sole di gennaio. Mi intorpidiva gli occhi rendendoli pigri e lenti come la vista che si appannava. Mi faceva girare la testa  e mi irrigidiva i muscoli. Sudavo come se stessi facendo sesso estremo e stavo ferma tremando come se mi stessi congelando dentro ad un refrigeratore per le carcasse degli animali appena macellati. Mi sentivo anche io macellata, ma dentro l'anima. Quel sole mi faceva sentire così. Gli altri lo sapevano e mi sfottevano impunemente. Azzardavano scommesse su quando mi sarei dissolta ardendo viva. I sintomi c'erano tutti. All'inizio mi ci arrabbiavo ma quasi subito mi accorsi che quello era il modo migliore perché continuassero a rompermi i coglioni. Non sapevo che non se li sarebbero mai rotti i coglioni. D'altro canto un modo per fare passare le ore dovevamo pur trovarlo e che io diventassi meno permalosa non avrebbe potuto che farmi bene. Non smisero mai, smisi io di arrabbiarmi.
Quel giorno avevamo preso un primo treno, come sempre. Abitavamo in culo ai lupi e non c'era santo perché cambiassero lo stato delle comunicazioni via terra. Per quelle su nel cielo bisognava direttamente contattare dio o chi per lui. C'era anche un bus che sapeva di carretto su mulattiera per la verità. Il mio bel sederino ne avrebbe risentito parecchio e siccome anche gli altri tenevano al proprio scorgevamo nell'eterno treno l'unica via d'uscita possibile. E la macchina? Quale macchina? Non avevamo una macchina decente. Una Peugeot verde che andava in ebollizione, viaggiare con quella equivaleva a suicidarsi. Io lo sapevo, me ne rendevo conto ma non mi volevo rassegnare. Era solo un'altra "anima" assetata, bastava abbeverarla di tanto in tanto. Pensavo. Forse, poi concludevo.
Il secondo treno, quello che ci doveva portare nella civiltà, spesso veniva risucchiato da qualche buco nero: soppresso per motivi misteriosi, sciopero del personale, le cavallette lo avevano distrutto, un drago lo aveva ingoiato e via dicendo, insomma qualche disastro biblico segnava la vita di tutti. Un motivo poi valeva un altro e quando così accadeva poco importava che tutti si sdegnassero. Mi hanno sempre fatta ridere quelli che si arrabbiano cianciando e blaterando insulti a destra e manca. Avrebbero fatto meglio a cantare. Come facevamo noi. Eravamo artisti, di quelli itineranti. Feste di piazza per lo più. Io cantavo e ballavo. Non eravamo come gli altri certamente. Gli artisti di strada sono diversi tra loro e diversi da tutti. Il nostro repertorio era vastissimo. Prediligevamo la musica popolare, quella che raccontava le vecchie storie. Riarrangiavamo vecchie nenie e portavamo alla luce antiche musiche popolane che rischiavano di essere dimenticate per sempre. Nella nostra esaltazione giovanile pensavamo anche di avere una qualche utilità sociale e quindi di essere investiti di una missione: quella di svegliare le coscienze dal grigio torpore delle città portando sole e musica. Già il sole. Ma io lo odiavo il sole.. In quel momento lo odiavo.


mercoledì 11 gennaio 2012

Indirizzi Nuovi

Mi chiedo come farò a non sentire quella musica. Mi dimenticherò di quel languido torpore che mi regala, di quel silenzio fermo, immobile mentre tutto scorre fuori da me, di quando mentre sei in una stanza ti accorgi che hai tutto il mondo dentro, e fuori, dove c'è la guerra, ti dimentichi di dover mettere più piede. Quando in mano tieni i fili del tempo e li dissolvi come fossero coriandoli e polvere che brilla. Tutto sta lì, ti è accanto e tu hai domato tutte le passioni saggiandone il sapore senza scottarti la lingua. Come farò senza il batticuore che mi regala quella prigione chiamata estasi, cosa accadrà quando al mio click non seguirà alcuna melodia e io resterò con un evanescente ricordo che diverrà sempre più sfumato?...al punto che non ricorderò nemmeno quella stanza e gli istanti in cui ho vissuto questa eternità.














Mi mancherà tutto, come mi è sempre mancato tutto ciò che ho dovuto lasciare andare e che poi non è tornato indietro, se non con forme e colori diversi. L'unica cosa che rimane è il marchio che quelle cose lasciano sul cuore.