Il posto era bello, noi eravamo i tipi che nonostante le storture del destino riuscivamo a trovare bellezza in ogni dove. Gli artisti hanno questo dono: scorgere bellezza, contemplarla e trovare un modo, uno qualunque per trasmetterla, per creare unione, fratellanza, amore. Già l'amore, ogni tanto ci pensavo ma era come se non avessi tempo. Amavo già tutto, e amavo anche ciò che mi sembrava di odiare. A volte mi sorprendevo a ridere di me stessa perché forse amavo anche quel sole di mezzogiorno che tanto mi infastidiva, tanto mi prendeva in giro, come i miei compagni, fratelli di un percorso sconosciuto che nascondeva dietro le difficoltà qualcosa di meravigliosamente affascinante. E forse quello mi bastava. Tutti eravamo spiriti liberi, liberi liberi. Non avevamo che noi stessi e tutto il bagaglio interiore che univamo per dare vita a qualcosa che sconvolgeva i nostri stessi sensi e ad ogni prova, ad ogni ballo, ad ogni sonata eravamo quasi sfiniti da un'estasi magica e conturbante.
Era il momento di accamparci. Avevamo trovato una pensione in pieno centro, ma costava poco. Tutto era vagamente medioevaleggiante e mentre camminavamo a piedi, sudati e affamati e stanchi verso il nostro riparo, ci guardavamo attorno come se mai avessimo guardato qualcosa, o sentito , o udito e lo stupore pervadeva i nostri sensi facendoci scambiare sguardi complici di nuove ispirazioni, non serviva parlare, avevamo imparato che bastava sentire, e guardandoci facevamo circolare il nostro sapere, l'unione diventava un silenzio sacro scandito solo dai nostri passi che si sincronizzavano immediatamente, ogni parte del nostro corpo, per quanto stanca, riprendeva vigore e come una danza tutti ci muovevamo secondo un ritmo lento, calmo, lussurioso, all'unisono.
lunamarechiaro
domenica 18 giugno 2017
domenica 17 giugno 2012
Il viaggio
Il treno finalmente arrivò. Caricammo i bagagli le valigie gli strumenti e tutto quello che ci eravamo portati. Non lasciammo a terra nulla, nemmeno i sogni, anzi quelli erano i primi a partire con noi. E meno male. Mi chiedo se non avessimo avuto la forza dei nostri sogni cosa avremmo potuto fare, forse nulla, nulla per noi stessi, nulla per gli altri...ma ora che ci penso soprattutto nulla per noi stessi, perché a pensarci bene quei viaggi e quelle avventure erano il nostro serbatoio di vita, di crescita, di illuminazione, e incidentalmente per fortuna, ogni tanto, riuscivamo a coinvolgere qualche anima che ci lasciava entrare con un sorriso. E questo era bello, davvero bello. Ci ripagava di tutti i sacrifici che facevamo, di tutte le notti insonni, di tutti i soli di mezzogiorno, per quel che mi riguarda. Durante il primo viaggio dormii praticamente tutto il tempo. Lo scompartimento puzzava di sigaro e qua e là era bruciacchiato. Mi piaceva addormentarmi con l'odore forte dei sedili. Era l'odore di un milione di persone che avevano viaggiato, che avevano confuso le loro molecole con quelle delle poltrone su cui si erano seduti e su cui avevano fumato, fatto l'amore, litigato, dormito. Quell'odore mi faceva sentire meno sola e meno disperata, come se anche io fossi parte di un flusso continuo che si dirigeva ora qua e ora là e mi permetteva di sentirmi meno sola, meno affranta dalla fatica. Vivevo un'esperienza comune e le mie risate, le mie lacrime si mescolavano alle lacrime e alle risate di tutti quelli che avevano percorso il mio stesso tragitto. Mi piaceva sentire il rumore del treno sulle rotaie e le voci della gente accanto a me, e mi piaceva, prima di abbandonarmi al sonno, immaginare le cose come in un film.
Mi svegliarono una volta arrivati alla prima stazione. Ah che strazio. Ma la coincidenza arrivò meno di un quarto d'ora dopo e tutto ricominciò fino all'arrivo.
giovedì 12 gennaio 2012
Il sole di gennaio
Il sole bruciava. Strano, perché era inverno pieno e il freddo tagliava la pelle con le sue sferzate, letteralmente. Eravamo fermi in una stazione dei treni, aspettando un'improbabile coincidenza. I treni sembrano appuntamenti con il destino. Poca la gente in giro. Il pomeriggio appena iniziato accoglieva meno anime di quante ce ne si aspettasse. Era da mezzogiorno che si stava lì. Incuranti di ogni cosa e con quella fastidiosissima sensazione di sudore che ti si asciuga in corpo e nei vestiti ghiacciandoti ancora di più. Che palle. Ma non si poteva andare in macchina? Partire magari di notte. No, ci si deve adattare spesso e volentieri, anzi mal volentieri.
Si mangiava male e poco. Io poi mangiavo quasi nulla ma i morsi della fame li sentivo eccome. Andavamo avanti a cracker e succo di pomodoro, quando lo trovavamo, altrimenti la passata nelle bottiglie andava pure bene. Qualcuno della compagnia aveva detto che faceva bene. E poi ci sembrava quasi di mangiare pasta al sugo. Odiavo stare lì. Odiavo stare sotto quel sole. Odiavo, e dico odiavo con tutta la forza che ho in corpo, quel lasso di tempo che andava da mezzogiorno fino alle quattro del pomeriggio e soprattutto odiavo il sole di gennaio. Mi intorpidiva gli occhi rendendoli pigri e lenti come la vista che si appannava. Mi faceva girare la testa e mi irrigidiva i muscoli. Sudavo come se stessi facendo sesso estremo e stavo ferma tremando come se mi stessi congelando dentro ad un refrigeratore per le carcasse degli animali appena macellati. Mi sentivo anche io macellata, ma dentro l'anima. Quel sole mi faceva sentire così. Gli altri lo sapevano e mi sfottevano impunemente. Azzardavano scommesse su quando mi sarei dissolta ardendo viva. I sintomi c'erano tutti. All'inizio mi ci arrabbiavo ma quasi subito mi accorsi che quello era il modo migliore perché continuassero a rompermi i coglioni. Non sapevo che non se li sarebbero mai rotti i coglioni. D'altro canto un modo per fare passare le ore dovevamo pur trovarlo e che io diventassi meno permalosa non avrebbe potuto che farmi bene. Non smisero mai, smisi io di arrabbiarmi.
Quel giorno avevamo preso un primo treno, come sempre. Abitavamo in culo ai lupi e non c'era santo perché cambiassero lo stato delle comunicazioni via terra. Per quelle su nel cielo bisognava direttamente contattare dio o chi per lui. C'era anche un bus che sapeva di carretto su mulattiera per la verità. Il mio bel sederino ne avrebbe risentito parecchio e siccome anche gli altri tenevano al proprio scorgevamo nell'eterno treno l'unica via d'uscita possibile. E la macchina? Quale macchina? Non avevamo una macchina decente. Una Peugeot verde che andava in ebollizione, viaggiare con quella equivaleva a suicidarsi. Io lo sapevo, me ne rendevo conto ma non mi volevo rassegnare. Era solo un'altra "anima" assetata, bastava abbeverarla di tanto in tanto. Pensavo. Forse, poi concludevo.
Il secondo treno, quello che ci doveva portare nella civiltà, spesso veniva risucchiato da qualche buco nero: soppresso per motivi misteriosi, sciopero del personale, le cavallette lo avevano distrutto, un drago lo aveva ingoiato e via dicendo, insomma qualche disastro biblico segnava la vita di tutti. Un motivo poi valeva un altro e quando così accadeva poco importava che tutti si sdegnassero. Mi hanno sempre fatta ridere quelli che si arrabbiano cianciando e blaterando insulti a destra e manca. Avrebbero fatto meglio a cantare. Come facevamo noi. Eravamo artisti, di quelli itineranti. Feste di piazza per lo più. Io cantavo e ballavo. Non eravamo come gli altri certamente. Gli artisti di strada sono diversi tra loro e diversi da tutti. Il nostro repertorio era vastissimo. Prediligevamo la musica popolare, quella che raccontava le vecchie storie. Riarrangiavamo vecchie nenie e portavamo alla luce antiche musiche popolane che rischiavano di essere dimenticate per sempre. Nella nostra esaltazione giovanile pensavamo anche di avere una qualche utilità sociale e quindi di essere investiti di una missione: quella di svegliare le coscienze dal grigio torpore delle città portando sole e musica. Già il sole. Ma io lo odiavo il sole.. In quel momento lo odiavo.
Si mangiava male e poco. Io poi mangiavo quasi nulla ma i morsi della fame li sentivo eccome. Andavamo avanti a cracker e succo di pomodoro, quando lo trovavamo, altrimenti la passata nelle bottiglie andava pure bene. Qualcuno della compagnia aveva detto che faceva bene. E poi ci sembrava quasi di mangiare pasta al sugo. Odiavo stare lì. Odiavo stare sotto quel sole. Odiavo, e dico odiavo con tutta la forza che ho in corpo, quel lasso di tempo che andava da mezzogiorno fino alle quattro del pomeriggio e soprattutto odiavo il sole di gennaio. Mi intorpidiva gli occhi rendendoli pigri e lenti come la vista che si appannava. Mi faceva girare la testa e mi irrigidiva i muscoli. Sudavo come se stessi facendo sesso estremo e stavo ferma tremando come se mi stessi congelando dentro ad un refrigeratore per le carcasse degli animali appena macellati. Mi sentivo anche io macellata, ma dentro l'anima. Quel sole mi faceva sentire così. Gli altri lo sapevano e mi sfottevano impunemente. Azzardavano scommesse su quando mi sarei dissolta ardendo viva. I sintomi c'erano tutti. All'inizio mi ci arrabbiavo ma quasi subito mi accorsi che quello era il modo migliore perché continuassero a rompermi i coglioni. Non sapevo che non se li sarebbero mai rotti i coglioni. D'altro canto un modo per fare passare le ore dovevamo pur trovarlo e che io diventassi meno permalosa non avrebbe potuto che farmi bene. Non smisero mai, smisi io di arrabbiarmi.
Quel giorno avevamo preso un primo treno, come sempre. Abitavamo in culo ai lupi e non c'era santo perché cambiassero lo stato delle comunicazioni via terra. Per quelle su nel cielo bisognava direttamente contattare dio o chi per lui. C'era anche un bus che sapeva di carretto su mulattiera per la verità. Il mio bel sederino ne avrebbe risentito parecchio e siccome anche gli altri tenevano al proprio scorgevamo nell'eterno treno l'unica via d'uscita possibile. E la macchina? Quale macchina? Non avevamo una macchina decente. Una Peugeot verde che andava in ebollizione, viaggiare con quella equivaleva a suicidarsi. Io lo sapevo, me ne rendevo conto ma non mi volevo rassegnare. Era solo un'altra "anima" assetata, bastava abbeverarla di tanto in tanto. Pensavo. Forse, poi concludevo.
Il secondo treno, quello che ci doveva portare nella civiltà, spesso veniva risucchiato da qualche buco nero: soppresso per motivi misteriosi, sciopero del personale, le cavallette lo avevano distrutto, un drago lo aveva ingoiato e via dicendo, insomma qualche disastro biblico segnava la vita di tutti. Un motivo poi valeva un altro e quando così accadeva poco importava che tutti si sdegnassero. Mi hanno sempre fatta ridere quelli che si arrabbiano cianciando e blaterando insulti a destra e manca. Avrebbero fatto meglio a cantare. Come facevamo noi. Eravamo artisti, di quelli itineranti. Feste di piazza per lo più. Io cantavo e ballavo. Non eravamo come gli altri certamente. Gli artisti di strada sono diversi tra loro e diversi da tutti. Il nostro repertorio era vastissimo. Prediligevamo la musica popolare, quella che raccontava le vecchie storie. Riarrangiavamo vecchie nenie e portavamo alla luce antiche musiche popolane che rischiavano di essere dimenticate per sempre. Nella nostra esaltazione giovanile pensavamo anche di avere una qualche utilità sociale e quindi di essere investiti di una missione: quella di svegliare le coscienze dal grigio torpore delle città portando sole e musica. Già il sole. Ma io lo odiavo il sole.. In quel momento lo odiavo.
mercoledì 11 gennaio 2012
Indirizzi Nuovi
Mi chiedo come farò a non sentire quella musica. Mi dimenticherò di quel languido torpore che mi regala, di quel silenzio fermo, immobile mentre tutto scorre fuori da me, di quando mentre sei in una stanza ti accorgi che hai tutto il mondo dentro, e fuori, dove c'è la guerra, ti dimentichi di dover mettere più piede. Quando in mano tieni i fili del tempo e li dissolvi come fossero coriandoli e polvere che brilla. Tutto sta lì, ti è accanto e tu hai domato tutte le passioni saggiandone il sapore senza scottarti la lingua. Come farò senza il batticuore che mi regala quella prigione chiamata estasi, cosa accadrà quando al mio click non seguirà alcuna melodia e io resterò con un evanescente ricordo che diverrà sempre più sfumato?...al punto che non ricorderò nemmeno quella stanza e gli istanti in cui ho vissuto questa eternità.
Mi mancherà tutto, come mi è sempre mancato tutto ciò che ho dovuto lasciare andare e che poi non è tornato indietro, se non con forme e colori diversi. L'unica cosa che rimane è il marchio che quelle cose lasciano sul cuore.
mercoledì 7 settembre 2011
Senza senso, in apparenza
Cerco una canzone decente, anche se in realtà ne cerco una che rispecchi il mio stato d'animo. Provo a dirlo senza girarci intorno. Sono stranita...e io sapevo tutto...lo vedevo accadere...
In fondo mi rendo conto di non aver detto niente...e questo perché certe cose anche se le sai non le puoi dire...che strazio...e poi non si dorme perché pensi e ripensi...si sta bene anche così tutto sommato...
Ma che immagine do io adesso a queste parole...senza senso?
In fondo mi rendo conto di non aver detto niente...e questo perché certe cose anche se le sai non le puoi dire...che strazio...e poi non si dorme perché pensi e ripensi...si sta bene anche così tutto sommato...
Ma che immagine do io adesso a queste parole...senza senso?
martedì 16 agosto 2011
Un po' di calma
Difficile. Non so perchè. Mi sento come fossi risucchiata...e poi mi pare di sbagliare sempre. E il mare è troppo lontano e io sono stanca...mi sento fuori posto, come quando si sta scomodi...
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